Skip to content

Il passato da portare con sé

FondazioneBietti_passato

Negli anni ’60 Giambattista Bietti fissava la lista d’attesa mettendo gli indigenti prima e i ricchi poi; vi erano numerose cliniche private efficienti e chi aveva possibilità poteva usufruirne. C’erano ambulatori per i nullatenenti e gli oculisti si mobilitavano a Capodanno e all’apertura della caccia per essere pronti a curare i feriti. Tutto senza una riga di burocrazia. “Non si può tornare indietro – dice Mario Stirpe, presidente della Fondazione Bietti – ma non si può neppure andare avanti se non si porta quello spirito, quell’autonomia e quel senso della missione medica nel cuore”

“I giovani medici forse non lo immaginano neppure, ma molto prima dell’aziendalizzazione e prima ancora che il Sistema Sanitario Nazionale nascesse, la cura delle persone dipendeva pressoché interamente dal dall’intraprendenza dei medici. E dei direttori delle cliniche in particolare”. Per il prof. Mario Stirpe, oggi uno dei grandi dell’oculistica mondiale “parte di quello spirito va recuperato non per nostalgia ma per preservare la forza e la dignità della nostra missione nel presente”.

“All’epoca – racconta Stirpe – non c’era burocrazia e il direttore di una clinica era anche il suo amministratore. Ciò significava non solo libertà in senso lato, ma, nello specifico, il potere di organizzare le cure sulla base del bisogno dei pazienti. Giambattista Bietti era maestro anche in questo. Pur se le liste d’attesa non erano nulla in confronto ad oggi, comunque lui interveniva per far sì che i poveri venissero trattati – urgenze a parte, ovviamente – prima degli abbienti che potevano pagare un ricovero e sostenere un’assenza dal lavoro più lunghi. Chi, poi, non aveva proprio nulla nella vita di tutti i giorni diventava un privilegiato in corsia. Avevamo creato degli ambulatori speciali e i nullatenenti avevano la priorità e l’attenzione di tutti. Spesso, assieme alle cure, si trovavano anche un po’ di soldi per aiutarli. I chirurghi che operavano la mattina tornava prima di sera per controllare di persona il malato. E i medici uscivano a mezzanotte se serviva andare a casa dei loro assistiti. Infine, Bietti mobilitava i suoi oculisti nei momenti critici come Capodanno o l’inizio della stagione della caccia. Sapeva, come sapevamo tutti, che saremmo stati necessari per assistere i feriti da fuochi d’artificio o pallini di piombo”.

“Tutto questo fa parte di un altro mondo e non sarebbe né possibile né auspicabile tornare indietro. C’è, però, una parte di quello stesso mondo senza la quale non è neppure consigliabile andare avanti.  La burocrazia, per quanto pervasiva, non deve mai convincere un medico – e qualsiasi operatore sanitario se è per questo – che la responsabilità per la vita e la salute delle persone sia in altre mani rispetto alle proprie. È la responsabilità – morale e pratica – ad elevare la nostra missione e darle una dignità speciale. Noi medici dobbiamo essere i primi a riconoscerla e rivendicarla anche al di là delle frustrazioni e delle difficoltà. (E, potrei aggiungere, al di là dei gettoni di presenza, della carenza di organico, dei turni sempre più faticosi, delle lunghe e insensate campagne di disinformazione mediatica e delle grandi e piccole umiliazioni quotidiane). Che ci venga riconosciuto o meno, infatti, agire e trovare una strada per il bene del malato è il nostro dovere e il nostro privilegio. Per questo l’esempio di Bietti e di tanti altri della sua generazione non è solo un ricordo: è un esempio da tenere bene a mente portandone lo spirito con sé”.

11 Dicembre 2019
Skip to content