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Esami elettrofunzionali: le possibili applicazioni cliniche

macro eye

Nuove strade per l’oftalmologia grazie a metodi oggettivi per valutare la funzione visiva. All’interno della Fondazione Bietti studi e ricerche utilizzano l’Elettroretinogramma e i Potenziali Evocati Visivi per ottenere informazioni più complete sulla funzionalità retinica e delle vie ottiche utili sia per il clinico che per il beneficio del paziente

Esami elettrofunzionali come l’Elettroretinogramma e i Potenziali evocati visivi al centro delle ricerche per valutare la funzione visiva e migliorare la diagnostica di patologie oftalmologiche, e non solo. Il dott. Vincenzo Parisi, responsabile dell’Unità di Ricerca di “Neurofisiologia della visione e Neuroftalmologia” dell’IRCCS Fondazione Bietti, l’8 luglio 2021 nell’ambito del 18° Congresso Internazionale della Società Oftalmologica Italiana ha tenuto un corso di “Neurofisiologia della visione”, insieme al professor Benedetto Falsini dell’Università Cattolica di Roma. 

La funzione visiva può essere valutata attraverso metodiche oggettive?

Sì, ma con una premessa. La funzione visiva si può valutare con varie metodiche di natura psicofisica, cioè basate su risposte soggettive fornite dal paziente. Tuttavia, tali metodiche non consentono di discriminare quali elementi specifici che formano le vie nervose visive possano determinare un deficit della percezione visiva.

Allora risultano molto utili gli esami elettrofunzionali, cioè appunto metodiche oggettive di valutazione della funzione visiva.

Rientra in questa categoria l’Elettroretinogramma (ERG) che, grazie a metodi di registrazione e stimolazione, permette di studiare la funzione dei differenti e complessi elementi cellulari della retina, come ad esempio fotorecettori, cellule amacrine e cellule bipolari. Inoltre, è possibile esplorare la funzione di specifici elementi della retina, che veicolano la trasmissione dell’impulso nervoso dall’occhio fino al cervello. Mi riferisco in particolare alle cellule ganglionari, il cui corpo si trova all’interno della retina, ma il cui prolungamento, cioè l’assone, raggiunge una stazione centrale del cervello che prende il nome di Nucleo Genicolato Laterale. Accanto a questa famiglia di esami, troviamo i Potenziali Evocati Visivi (PEV), che studiano le risposte bioelettriche delle cellule della corteccia cerebrale occipitale (la corteccia visiva) ottenute a seguito di opportune tecniche di stimolazione e di registrazione. I PEV consentono di differenziare due grossi sottosistemi di funzione, in particolare quella degli assoni di grosso o di piccolo calibro. Insomma, con queste metodiche siamo in grado di discriminare la funzionalità delle diverse strutture che formano le vie ottiche dai fotorecettori retinici fino alla corteccia visiva.

Quali sono le principali applicazioni cliniche degli esami elettrofunzionali come l’Elettroretinogramma e i Potenziali Evocati Visivi?

Gli esami elettrofunzionali entrano in gioco prevalentemente quando il collega oculista si trova davanti a una inspiegabile riduzione della capacità visiva e, attraverso metodiche psicofisiche o di imaging quali l’OCT, non riesca a trovarne la causa.

In particolare, l’ERG si applica in caso di degenerazione o di disfunzione delle cellule retiniche, soprattutto i fotorecettori dei coni o dei bastoncelli. È importante differenziare l’una o l’altra condizione. Svariate patologie possono dar luogo a un’alterazione di tali componenti, come il distacco della retina o le distrofie congenite dei coni e dei bastoncelli, che possono determinare oltre che una diminuzione della capacità visiva anche una perdita del campo visivo.

I PEV, invece, trovano applicazione nelle patologie neuroftalmologiche, cioè relative alle strutture che formano il sistema nervoso visivo, dal nervo ottico fino alla corteccia visiva.

Un esempio è il glaucoma: circa il 70% dei pazienti, in cui ancora non sono manifesti deficit evidenziabili con metodiche psicofisiche come l’esame del campo visivo, possono infatti presentare un’alterazione precoce dei PEV. Questo perché la disfunzione delle fibre nervose è antecedente a quella visibile attraverso altre metodiche. Altre applicazioni cliniche riguardano l’ampio spettro delle neuriti ottiche, nelle quali possiamo evidenziare un rallentamento della conduzione nervosa che può interessare la “parte nobile”, il fascio papillo-maculare, o gli assoni periferici del nervo ottico. In particolare risultano essere molto utili le informazioni ottenute tramite i PEV in caso di neuriti ottiche su base ischemica, su base compressiva o dovute a mutazioni genetiche come la neurite ottica di Leber e l’atrofia ottica dominante. In questi casi, in maniera del tutto analoga alle forme tossiche del nervo ottico, si può quantificare tramite i PEV una disfunzione prevalente della parte centrale del nervo ottico, che determina uno scotoma centrale e quindi un’importante perdita della visione.

È bene sottolineare che in presenza di un’alterazione dei PEV siamo in condizione di dire che esista un’alterazione della risposta bioelettrica della corteccia occipitale alla presentazione di uno stimolo visivo, ma non di stabilire se la sede della disfunzione possa essere retinica o post-retinica. È dunque consigliato associare sempre ai PEV i vari tipi di ERG per ottenere informazioni più dettagliate sulla sede di disfunzione.

Una problematica relativa agli esami ERG e PEV è data dalle diverse metodologie utilizzate nei differenti laboratori di elettrofisiologia. A questo proposito, recentemente abbiamo fatto un grande passi in avanti, sviluppando nell’ambito della Rete di Neuroscienze e degli IRCSS delle SOP, cioè procedure operative standardizzate, che consentono la comparazione dei risultati ottenuti tramite l’esecuzione di ERG e PEV in differenti strutture.

Attualmente presso l’IRCCS Fondazione Bietti, quali metodiche elettrofunzionali vengono impiegate sia a scopo diagnostico che ai fini di ricerca traslazionale, cioè quella tipologia di ricerca i cui risultati vengono applicati in ambito clinico? 

In questi anni abbiamo effettuato diverse ricerche e studi, i cui risultati sono stati poi applicati in ambito diagnostico clinico.

Tra le tante, ci siamo concentrati sulla registrazione simultanea di ERG e PEV da pattern che, fornendo rispettivamente informazioni sulle risposte bioelettriche delle cellule ganglionari e della corteccia visiva, permettono di ottenere un indice elettrofisiologico della conduzione nervosa lungo le vie ottiche post-retiniche che prende il nome di “Tempo Retinocorticale”.  

L’applicazione combinata dei suddetti esami elettrofunzionali è utilissima nei pazienti affetti da sclerosi multipla, in cui è fondamentale stabilire se un ritardo delle risposte bioelettriche cerebrali rilevate tramite i PEV possa essere ascrivibile a una degenerazione dovuta a una pregressa neurite ottica (evidenziabile con  tipiche alterazioni dell’ERG), oppure a un ritardo della conduzione nervosa lungo le vie ottiche post-retiniche, tipico della patologia e rilevabile tramite un aumento del Tempo Retinocorticale.

Un aumento del Tempo Retinocorticale è stato rilevato anche in caso di glaucoma. La scoperta ha modificato completamente la visione della patologia glaucomatosa perché, grazie a questo dato (un nostro ultimo lavoro in tale ambito è stato accettato per la pubblicazione proprio in questi giorni sulla prestigiosa rivista Frontiers of Aging Neuroscience), si può evidenziare come il glaucoma, considerando che il danno funzionale non è selettivo per le cellule ganglionari, non sia una patologia esclusiva delle strutture oculari, ma un processo neurodegenerativo che coinvolge l’intero sistema nervoso visivo.

Utilizzando tale metodica, siamo riusciti a evidenziare nei pazienti che presentavano una mutazione genetica per neurotticopatia di Leber, ma del tutto asintomatici, cioè con una normale funzione visiva, una disfunzione precoce delle cellule ganglionari retiniche in assenza di disfunzioni delle vie ottiche post-retiniche.

Altra importante applicazione della registrazione di ERG e PEV riguarda le informazioni che si possono ottenere sulla funzionalità delle vie ottiche nei bambini ambliopi. Spesso, tali bambini quando sono sottoposti a occlusione dell’occhio controlaterale a quello “pigro” possono non migliorare la funzione visiva perché la disfunzione che la determina può essere a carico degli elementi retinici oppure del nervo ottico e ciò rende inefficace il trattamento occlusivo.

Una menzione a parte spetta all’ERG multifocale. È infatti possibile, con specifiche tecniche di stimolazione visiva (ERG multifocale), registrare l’attività elettrica di piccolissime aree retiniche localizzate, tra cui l’area foveale o la regione maculare. Tale tecnica è molto importante per rilevare delle aree retiniche ancora funzionanti in patologie degenerative come la retinite pigmentosa o di evidenziare disfunzioni maculari precoci come nel caso della degenerazione maculare legata all’età o alla malattia diabetica.

Presso la Fondazione Bietti, avendo vinto un progetto del ministero della Salute di “conto capitale”, ci siamo dotati di un interessante prototipo, unico in Europa, che ci permette di studiare la funzionalità dei differenti elementi retinici (fotorecettori, cellule bipolari e cellule ganglionari) non più in maniera globale, cioè dell’intera retina, ma da 64 o 128 differenti aree retiniche localizzate. Degli ultimi studi, che sfruttano tale metodica, recentemente pubblicati sulle riviste Frontiers of Neurology e Journal of Clinical Medicine, hanno permesso di rilevare che particolari cellule retiniche, le cellule bipolari, possono avere un ruolo di “barriera” nei processi neurodegenerativi dovuti alla Sclerosi Multipla.

A oggi l’elettrofisiologia oculare è una metodica diagnostica che non viene praticato in tutte le strutture ospedaliere o universitarie.

A mio avviso il limite per la diffusione di tali metodiche è legato a due fattori. Il primo è quello che l’utilizzo di tali tecniche richiede uno studio e un aggiornamento continuo da parte dell’elettrofisiologo, in particolare sulla conoscenza dei generatori delle differenti risposte bioelettriche. Il secondo si lega al fatto che, spesso quando il clinico pone un quesito diagnostico all’elettrofisiologo, quest’ultimo fornisce risposte particolarmente tecniche sulla tipologia di alterazione dei parametri elettrofunzionali che, il più delle volte, risultano essere poco comprensibili per la generalità degli oculisti o dei neurologi. E ciò riduce sicuramente le notevoli applicazioni diagnostiche. È necessario, invece, come avviene nel nostro Istituto, fornire il parallelo tra l’alterazione elettrofisiologica e il corrispondente del sito di disfunzione ed è proprio quest’ultimo che interessa al clinico. 

Pertanto, basta poco per rendere le risposte degli esami elettrofunzionali più accessibili, essendo meno “criptici” nella formulazione delle risposte elettrofunzionali e fornendo informazioni più dettagliate sulla sede di disfunzione.

9 Luglio 2021
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