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Cosa raccontano le cellule dell’occhio

FondazioneBietti_microscopia

Microscopia in time-lapsing, “scaffolding” e il nuovo orizzonte dei fluidi oculari. Come funzionano le colture cellulari nel Laboratorio dell’IRCCS Fondazione Bietti e cosa si può scoprire dalla ricerca

Non di rado le scoperte più importanti stupiscono gli stessi ricercatori che le hanno fatte. È una caratteristica della ricerca “pura”: quella che non si concentra su una singola tesi ma procede per tentavi registrando tutto quello che osserva: fenomeni, reazioni, relazioni e pattern.

Così, per esempio, la dott.ssa Alessandra Micera, direttrice del Laboratorio dell’IRCCS Fondazione Bietti, ha scoperto che i fibroblasti, le cellule che producono il tessuto connettivo all’interno dell’occhio, non solo sono in grado di recepire il Nerve Growth Factor[1], ma sotto il suo stimolo migrano verso i tessuti danneggiati da un taglio e si contraggono per avvicinare i lembi e favorire la guarigione. Ed è solo un esempio delle migliaia di sorprendenti scoperte che una piccola coltura cellulare, un microscopio e tanta pazienza possono regalare al ricercatore.

Come è possibile “osservare” e capire il funzionamento delle cellule?

Il modo migliore per studiare le cellule è farle crescere in vitro. È un sistema che permette di ridurre la grandissima complessità del corpo umano e studiare il comportamento delle cellule partendo dal livello più semplice. Bisogna sempre considerare che l’organismo non è fatto solo di materia, ma anche di regolazione. Migliaia di sostanze biochimiche e variabili come la concentrazione e la temperatura alterano il funzionamento dei tessuti o l’espressione dei geni. Per semplificare, noi coltiviamo le cellule inserendo un ‘ingrediente’ alla volta e ne studiamo l’effetto.

Come si crea una coltura cellulare?

In genere i laboratori di ricerca ricevono i diversi tipi di cellule umane che vogliono studiare da aziende specializzate. È un processo delicato perché ci sono cellule che vivono in media tra le 24 ore e i 6/7 giorni e la riproduzione cellulare fuori dall’organismo riduce le differenziazioni (cioè le caratteristiche peculiari delle singole linee cellulari) rendendole, in breve tempo, inutili per la ricerca. Questo premesso e garantiti i livelli di sterilità necessari, le cellule vengono immesse in un mezzo nutriente e fatte crescere in modi diversi a seconda della domanda di ricerca alla quale si vuole rispondere.

Quali sono i tipi coltivazioni in vitro?

Ci sono tre possibilità.  Il primo è il mono-layer (singolo strato). In questo caso si inserisce un solo tipo di cellule che si espande fino ai margini della piastra. La vicinanza e il contatto tra le cellule induce un meccanismo di controllo che interrompe la riproduzione. A questo punto, possiamo capire come reagiscono le cellule alla presenza/assenza di singole sostanze o misurare la concentrazione di sostanza (per esempio il già citato NGF) necessaria a creare una reazione nelle cellule. Possiamo anche fotografare il percorso delle sostanze dentro le cellule. Se colleghiamo un marcatore fluorescente alla sostanza, un microscopio in tecnologia time-lapsing può fotografare in tempo reale l’entrata del marcatore nella cellula. Di particolare interesse, poi, sono i meccanismi infiammatori nei tessuti danneggiati. Meccanismi che si possono studiare, per esempio, con il secondo tipo di coltura: il doppio strato (double-layer). In questo caso possiamo aggiungere ad uno strato di fibroblasti uno di mastociti o granulociti eosinofili, per esempio. Come si influenzano a vicenda? Come reagiscono alla presenza di NGF o di mediatori infiammatori (o alla loro assenza)? Ma soprattutto: i fibroblasti reagiranno allo stesso modo oppure la presenza di un altro tipo di cellule altererà la risposta alla medesima sostanza? Con queste domande affrontiamo la tematica della relazione tra cellule diverse (e, quindi, ci avviciniamo di un passo alla complessità del tessuto in vivo). Per simulare ulteriormente (anche senza mai riuscire ad emulare del tutto) questa stessa complessità si usa un terzo tipo di coltura cellulare: lo scaffold. La traduzione letterale è “impalcatura”. Sono delle strutture porose (spesso liquidi che si solidificano) nelle quali le cellule si dispongono a diverse altezze. In questa dimensione tridimensionale si può assistere al movimento delle cellule nello spazio. Per esempio, possiamo capire che gli stessi fibroblasti (proprio come anticipato all’inizio dell’articolo, ndr) non solo reagiscono al NGF, ma migrano, si differenziano in miofibroblasti e contraggono fisicamente la matrice (scaffold) nella quale sono inseriti.

Ecco tratteggiato, a titolo di esempio, un intero percorso di ricerca nei diversi livelli di coltura[2]. La scoperta di come funzionano le cellule tra loro e in relazione a particolari condizioni è il primo passo sul quale basare sia una maggiore comprensione della fisiologia che della patologia dei tessuti che una ricerca farmacologica e clinica.

Qual è l’orizzonte della ricerca nel laboratorio all’IRCCS Fondazione Bietti?

Al momento l’orizzonte è dato dalla nuova camera delle colture cellulari, dalla promessa dei liquidi oculari e dalla possibilità di utilizzarli come terreno di coltura per le cellule della retina. La prima è una camera sterile dedicata, con cappe a flusso laminare, pass-box, zona filtro e spogliatoi dedicati, per lavorare in ambiente controllato. Si tratta di misure che ‘proteggono’ le colture dal rischio di contaminazione esterna e, quindi, preservano l’attendibilità scientifica delle osservazioni. I liquidi oculari sono una strada promettente per la ricerca. Come detto all’inizio, la concentrazione e la composizione dell’ambiente nel quale le cellule sono immerse influisce sulla loro attività regolandola. Si pensa che, simulando con precisione i fluidi oculari che nutrono le cellule dell’occhio, si potranno riprodurre in laboratorio con maggiore veridicità le condizioni reali dei tessuti oculari. Partendo da questa nuova tecnica il nostro obiettivo è la coltura delle cellule retiniche: le cellule focali dell’apparato visivo. Il campo non è nuovo ma pensiamo di poter dare avvio (assieme, sia chiaro, a molti altri laboratori nel mondo) a questa nuova strada sfruttando – come molto spesso accade nella ricerca – la coincidenza di lavorare a stretto contatto con i bravissimi oculisti specializzati nella Retina che operano nella Fondazione Bietti. È un’anteprima di futuro e tutto il nostro team è impaziente di scoprire cosa c’è dietro l’angolo del prossimo progetto di ricerca”.


Articoli scientifici a firma della dott. Micera dai quali sono stati tratti alcuni spunti per questa intervista:


[1] L’oggetto dello studio non è casuale: Micera si è formata alla “scuola” di Rita Levi Montalcini studiando con il Prof Luigi Aloe, suo correlatore di tesi di laurea.

[2] I tre tipi di coltura sono presentati – per facilitare l’esposizione – come una successione di esperimenti. Nella realtà i tre esempi citati sono stati impiegati in due distinti percorsi di ricerca. Gli articoli sono riportati in fondo al testo.

20 Febbraio 2020
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